Per quanto l’introduzione di abbonamenti più o meno costosi non siano una novità, possiamo affermare abbastanza serenamente che mai come ora siamo stati sommersi dai più disparati servizi che cercano di convincerci ad aprire il portafogli.
Forse però la situazione ha cominciato a sfuggirci di mano quando anche i colossi social hanno cominciato ad introdurli.
Di per sé, il concetto di abbonamento è piuttosto basilare; molto semplicemente, a fronte di un mio pagamento, l’azienda si impegna a fornirmi un servizio.
E’ a questo punto però che possiamo trovare le maggiori differenze.
Questi servizi possono essere principalmente di due tipi: da una parte quelli che, previo pagamento, vanno ad aggiungere funzioni al servizio base, tendenzialmente limitato ad un pool ristretto di funzionalità, ma anche dall’apparizione di pubblicità più o meno invasive; dall’altra quelli che invece non prevedono una versione base, rendendo di fatto obbligatorio il pagamento per coloro che vogliono usare il prodotto.
Nel tempo abbiamo visto susseguirsi tantissime formule basate su questi due ragionamenti, e siamo arrivati al punto in cui quasi ogni app prevede una versione premium (accuratamente segnalata nei vari store).
Ragionano così ovviamente i principali servizi di streaming audio e video (vedasi Spotify piuttosto che Netflix), e sta provando a fondere i due mondi YouTube, una piattaforma a dir poco rivoluzionaria al tempo, che dopo aver navigato in acque non propriamente cristalline, sta cercando di risollevarsi.
Sebbene non sia nato con grandi premesse, nel tempo ha raggiunto una notevole maturità come servizio; Google, infatti, ha pensato bene di offrire all’utente non solo una fruizione senza pubblicità (spesso veramente frequenti e fastidiose) e la possibilità di riproduzione in background (cosa che, a onor del vero, avrebbero potuto implementare anche prima senza troppa fatica…), ma soprattutto il pieno accesso a YouTube Music, con quello che di fatto è un repertorio musicale sterminato (forse più grande anche dei competitor di settore).
Complice probabilmente il gran caos portato dalla nuova proprietà targata Musk, l’introduzione degli abbonamenti all’ex Twitter è stato tutto fuorché un successo.
In verità, anche prima di Musk, l’azienda aveva tentato qualcosa di simile con “Twitter Blue”, che per pochi dollari al mese dava la possibilità, ad esempio, di cancellare i tweet dopo l’invio, o di salvare quelli preferiti suddividendoli per categoria.
Dopo i primi mesi di gestione, disseminati di scandali, Musk ha pensato di stravolgere tutto con ben 3 abbonamenti (il Basic per 3 dollari al mese; Premium, un tempo definito “Blue”, per 8 dollari; e Premium+ per addirittura 16), ognuno dei quali aggiunge effettivamente qualcosa, ma che va anche a snaturare fortemente l’esperienza.
La scelta più criticata è stata senza dubbio quella di includere dalla versione Premium anche la famosa spunta blu, come già visto in altro articolo.
Questo ha definitivamente compromesso l’attendibilità dei contenuti di questo social, causando una vera emorragia di investimenti.
Aiutato sicuramente dal trambusto generato da X, Zuckerberg ha avuto vita più facile nell’annunciare l’abbonamento alle sue piattaforme.
Spinto dalla necessità di adeguarsi alle recenti normative dell’UE in materia di privacy e sicurezza, il nuovo abbonamento potrebbe risultare piuttosto un colpo basso per gli utenti.
Di fatto, se da una parte le nuove regole impongono limitazioni piuttosto stringenti in ottica di trattamento dei dati (cosa senza dubbio necessaria), dall’altra in questo modo Meta (con il favore della Corte di Giustizia Europea) ha la possibilità di richiederci un pagamento esclusivamente per non ricevere pubblicità.
Tanto basterebbe per la commissione di vigilanza per far sì che all’utente sia data possibilità di scelta su come vengano trattati i suoi dati.
Non ci resta che aspettare per capire come questi abbonamenti cominceranno ad influenzare l’andamento dei social, ma soprattutto la sicurezza dei dati di tutti gli utenti.
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