Dopo l’esplosiva fioritura dei più disparati portali di informazione online, stiamo assistendo alle prime battute di arresto ai danni (per il momento) di due protagonisti indiscussi del “giornalismo” online per come lo conosciamo oggi.
È di poche settimane fa la notizia, riportata in prima battuta dal “New York Times”, che vedrebbe Vice pronta a dichiarare il fallimento; quasi contemporaneamente, arrivavano le voci della chiusura della sezione “news” del celebre aggregatore BuzzFeed.
Queste dichiarazioni sono arrivate come lampi nel mondo del giornalismo in rete, in quanto i due player sopra citati sono, fin dalla loro nascita, due voci stimate ed apprezzate del settore, non tanto per le tematiche trattate, quanto per il modo in cui si lanciavano sulla notizia.
BuzzFeed News nasce come contraltare alla leggerezza del sito principale, in cui si rilanciavano prettamente notizie di attualità, ed i cui introiti dovevano servire a bilanciare il giornalismo d’inchiesta ed investigativo ricercato dalla divisione fondata nel 2011 (che tra le altre cose, si è guadagnata un premio Pulitzer appena due anni fa).
Ben diversa la storia di Vice News: fondata in Canada a metà degli anni ’90 come rivista rivolta ad un pubblico di giovani, si è presto imposta grazie al suo modo di raccontare il mondo. Per stessa ammissione dei fondatori, uno dei concetti principali dietro il lavoro della redazione era quello di “fare cose stupide fatte bene, e cose intelligenti nella maniera più stupida”; modus operandi, questo, che si è imposto presto anche nelle loro produzioni video, ma che soprattutto, ha influenzato il modo di creare contenuti dei successivi anni.
Ancora oggi, per esempio, è possibile trovare un certo retaggio di questo modo di fare le cose nel lavoro di tantissimi content creator che, per assurdo, stanno facendo la loro fortuna proprio con gli strumenti che stanno mettendo in ginocchio il giornalismo, sia online che tradizionale.
La notizia della crisi di BuzzFeed e Vice senza dubbio è stata piuttosto inaspettata; certo è che, per gli osservatori più attenti del settore, il crollo vertiginoso della quotazione del broadcaster canadese poteva anticipare un destino non particolarmente florido, almeno sul breve termine.
Dai quasi 6 miliardi di valore nel 2017, si è passato al miliardo attuale. Ma il problema vero rimane che nessuno sembra intenzionato all’investimento.
Possiamo quindi dire che sta volgendo al termine l’epoca del giornalismo online? In un certo senso si, ma non definitivamente; sarebbe più giusto parlare di un’evoluzione, anche piuttosto naturale e per certi versi necessaria, visti i costanti cambiamenti sociali cui stiamo andando incontro.
Questi due colossi, infatti, benché nati come pure digital, sono rimasti troppo ancorati alla loro idea originale. Certo nel tempo si sono avvicinati agli strumenti che la rete ha messo loro a disposizione, ma ne hanno usufruito con le loro modalità.
Questo per tanti anni ha fatto scuola, ma quando lo stile ha cominciato a diffondersi e soprattutto a funzionare anche con altri creator, non è più bastato per resistere.
Allo stesso tempo però, sarebbe sbagliato pensare che il giornalismo online stia scomparendo; da una parte, infatti, continuano a resistere solidamente i grandi nomi dell’informazione online, che certo, puntano ancora moltissimo sulla carta stampata e su modalità divulgative piuttosto tradizionali, ma è innegabile che abbiano saputo adeguarsi all’avanzare del tempo.
Allo stesso tempo però è bello veder fiorire iniziative nobilissime, come l’ormai consolidata realtà de “Il Post”, una testata esclusivamente online ma soprattutto gratuita (che si rimette ai suoi lettori che possono scegliere di abbonarsi o meno, cui offre però in cambio diversi contenuti “extra”), il cui lavoro sta ricevendo sempre più riscontri positivi.
“Est modus in rebus” dicevano i latini. Come sempre, la verità è da ricercare nel mezzo; è innegabile, infatti, il ruolo fondamentale giocato dai social nello sviluppo della comunicazione degli ultimi anni; ma è altrettanto indiscutibile (come del resto abbiamo visto fare a nomi storici dell’informazione online, o anche a player più giovani del settore) che l’uomo sappia adeguare le sue attività al cambiamento dei tempi.
Senza dubbio la deriva dei social ha scompaginato i piani di agenzie come Vice o BuzzFeed, che probabilmente avrebbero mantenuto incontrastati il proprio predominio sull’informazione; ma cosa ha determinato questo calo improvviso? Perché altre testate più tradizionali sono riuscite ad ammortizzare il colpo assestato dalle nuove piattaforme?
Sicuramente l’aver puntato tutto su una sola modalità comunicativa (convincendosi dell’efficacia di un modo di porsi al pubblico che per anni ha funzionato), non ha aiutato a trattenere su di sé i riflettori. Quando infatti lo stile è stato compreso, ed è diventato più facile replicarlo, il gioco era fatto: sempre più persone sono riuscite a raggiungere standard altissimi, sia per qualità che per contenuti trattati.
Questo, in aggiunta al non voler cedere al cambiamento imposto da queste nuove piattaforme, ha comportato un’emorragia di utenti, ma soprattutto di introiti.
Considerando poi che le scelte editoriali di entrambe le redazioni erano, tra le altre cose, anche piuttosto onerose, è più facile comprendere il motivo che si cela dietro alla crisi di queste realtà ormai storiche.
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