Gli ultimi anni sono stati piuttosto esplosivi per questo settore. Sono sempre di più i brand che offrono capi d’abbigliamento a basso costo, e quasi tutti hanno file sterminate di persone più o meno giovani di fronte ai loro camerini.
Allo stesso tempo però, non possono neanche più essere ignorate le tematiche ambientali. Senza rendercene conto, infatti, con questo nuovo modo di vestirci “usa e getta” stiamo sensibilmente contribuendo non solo alla distruzione dell’ambiente in senso globale, ma al completo inquinamento delle aree del mondo in cui vengono prodotti questi capi.
Ma allora, da dove deriva tutto questo successo? E come si stanno ponendo questi grandi player di fronte al nuovo che avanza senza freni online?
I nomi di quei negozi che oggi giorno sono sulla bocca di tutti, quali H&M, Zara, Bershka, sono molto più vecchi di quanto possiamo pensare.
La svedese Hennes & Mauritz vede la sua origine addirittura negli anni ’40 del ‘900, come marchio di solo abbigliamento femminile. Anche Zara affonda le sue radici nella Spagna degli anni ’70, per dire.
I veri problemi però sono cominciati solo recentemente, tanto per cambiare tra la fine degli anni ’90 ed i primi del 2000, quando cioè questi marchi si sono avviati verso una vera globalizzazione, con tutto ciò che ne consegue.
Questo ha reso necessario un sempre maggior approvvigionamento di materie prime, il che si rese sempre più costoso, a causa del costante aumentare di richiesta e soprattutto di punti vendita da rifornire (che sorgono tra l’altro in aree sempre più ricche delle città) e clienti da soddisfare.
Ogni azienda però, per rimanere in profitto, soprattutto di fronte a questa grande mole di vendite, o aumenta sensibilmente i costi al pubblico, o abbassa drasticamente la qualità dei suoi prodotti.
Ciò che più sorprende di queste realtà è che negli ultimi anni, sono successe entrambe le cose. Non solo i prodotti sono divenuti via via sempre meno buoni, ma per assurdo sempre più costosi.
Si è aperta così la strada verso dei concorrenti ancora più spietati. Se infatti moltissimi di questi negozi fanno capo allo stesso gruppo finanziario (spesso di origine americana, o talvolta europea), lo stesso non si può dire per i nuovi colossi del fast fashion.
Negli ultimi anni infatti siamo stati testimoni di un fenomeno quasi peggiore rispetto a quello che ha cominciato a diffondersi all’inizio del nuovo millennio.
Complice la tragica pandemia di Covid19, gli ultimi 3 anni hanno visto uno sbalorditivo exploit di siti cinesi, specializzati nella vendita di abbigliamento ed accessori a basso costo.
E-commerce come Shein o Temu (solo per citare i più grandi fenomeni degli ultimi 3 anni), piuttosto che Aliexpress o Banggood, hanno fatto la loro fortuna proprio su questo. Prodotti complessivamente funzionanti o gradevoli nell’aspetto, a costi letteralmente ridicoli, da ricevere comodamente a casa, piuttosto che sul luogo di lavoro.
Sarà capitata a tutti ormai almeno una delle pubblicità (per nulla invasive tra l’altro…) di questi siti, che offrono la qualunque, spesso per cifre che ormai non garantiscono neanche un caffè al bar.
Quale utente allora, di fronte ad offerte apparentemente così vantaggiose, o comunque ad azioni di marketing così mirate, riesce a non farsi tentare, cliccando spensieratamente su “compra ora”?
Ciò di cui non ci si rende mai conto però, è che dietro ogni nostro click si cela un meccanismo malsano, che ripetuto per tutti gli acquirenti attivi dei vari siti, porta a conseguenze devastanti.
Sempre più spesso, infatti, emergono inchieste che portano a galla il vero lato oscuro di queste realtà. Questi e-commerce ormai (come da tantissimo tempo anche tutte le catene di abbigliamento fisiche) sono colpevoli di una parte notevole dell’inquinamento che minaccia spaventosamente gli equilibri del pianeta.
Proprio la filiera dell’abbigliamento coinvolge processi che hanno impatti devastanti su praticamente ogni elemento della terra.
Non bastasse questo, a condire il tutto troviamo anche, nella maggior parte dei casi, lavoratori costretti in condizioni veramente disumane, con paghe da fame anche per gli standard dei loro paesi.
Tutti questi problemi nel tempo hanno fatto si che i grandi gruppi di attivisti sul fronte della devastazione ambientale si scagliassero contro questi marchi.
Di fatto, ciò su cui viene maggiormente posto l’accento non è soltanto l’impatto che questi prodotti hanno sul clima e sull’ambiente, quanto piuttosto le varie campagne messe in piedi da queste grandi corporate, per tentare di smarcarsi da questo problema.
Per questo negli ultimi anni il web si è riempito di termini come “green-washing”, piuttosto che “rainbow-washing”, “pink-washing” o “gender-washing”, concetti che stanno tutti a simboleggiare un modo spietato di fare marketing, basato sullo sfruttamento di tematiche sociali particolarmente calde, che mira esclusivamente al profitto e spesso professa il falso.
Tutto ciò affligge drasticamente il mercato odierno; se è vero, infatti, che ormai neanche i marchi premium siano privi di colpe, per quanto riguarda le aziende che hanno fatto della fast fashion il loro core questo è ancor più amplificato.
Da tempo, infatti, le strategie di promozione di queste società hanno valicato il confine dei social, per approdare sui media più disparati: non è raro ormai trovare pubblicità di Shein, piuttosto che di Temu, anche in tv; per non parlare dei mirabolanti spot stagionali di H&M e simili, che talvolta si avvalgono del supporto di grandi registi ed attori.
La speranza allora rimane quella che, finalmente, i diversi enti regolatori internazionali possano cominciare ad intervenire sul serio per porre un freno considerevole a questa distruzione.
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